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Subject: Crisi economica

2014-05-01 23:12:59
ho letto le prime 30 righe, pure troppo
in pratica, ti mettono in bocca cose che non hai detto e poi ti danno dell'idiota
molto comodo
2014-05-02 14:31:34
--begin ot--

Fuori dall'Europa? A Maggio vota Juve.

--end ot--
2014-05-04 00:53:08
Smile

Alla fine hanno patteggiato. Google, Apple, Adobe e Intel hanno preferito evitare il processo che sarebbe dovuto cominciare alla fine di maggio in California. Le quattro aziende erano accusate da circa 64mila lavoratori di essersi accordate per non soffiarsi i dipendenti, di fatto bloccando la mobilità ed evitando gli aumenti salariali. L’accordo raggiunto prevede il pagamento di 324 milioni di dollari, mentre la cifra chiesta inizialmente era di tre miliardi.

“I lavoratori della Silicon valley hanno ottenuto una vittoria importante”, ha scritto il New York Times, “quello che non hanno ottenuto è un sacco di soldi”. Molti osservano tra l’altro che le quattro aziende in questione sono tra le più ricche degli Stati Uniti, e quindi del mondo. Alla domanda se servirà da lezione per la Silicon valley, l’avvocato dei lavoratori ha detto: “Lo spero, ma solo il tempo lo dirà”. Uno degli aspetti più interessanti della vicenda, però, sono le carte processuali, che offrono uno spaccato inedito delle relazioni industriali.

L’accordo per non assumere i lavoratori di un’altra azienda risale alla metà degli anni duemila ed era ovviamente segreto e illegale. Tanto che Eric E. Schmidt, chief executive della Google, scriveva in un’email di non voler lasciare troppe tracce scritte. Ma trattandosi di aziende con migliaia di impiegati, capitava che qualcuno, all’oscuro dell’accordo, cercasse di reclutare un dipendente della concorrenza, in buona fede, pensando di fare gli interessi della sua azienda. “Se assumi una sola di queste persone sarà guerra”, scrive Steve Jobs al capo della Google quando viene a sapere del tentativo di assumere un suo programmatore. Schmidt risponde a Jobs promettendogli che il reclutatore della Google che ha violato l’accordo sarà licenziato “nel giro di un’ora”. E Jobs gira l’email di Schmidt all’ufficio del personale della Apple, aggiungendo uno smile.

Internazionale, numero 1049, 1 maggio 2014
2014-05-15 19:41:14
Il Fatto Quotidiano > Elezioni Europee 2014 > Sondaggio Usa, ...

Sondaggio Usa, “gli italiani sono i più euroscettici. Il 44% vuole tornare alla lira”

E' quanto emerge da una rilevazione del Pew Research Center, secondo cui i tedeschi sembrano "vivere in un continente differente". Se appena il 10% degli europei intervistati ritiene che l’economia vada bene, in Germania sono l’85% a crederlo

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 15 maggio 2014

Più dei greci tartassati dalla crisi, dei francesi travolti dall’ondata di Marine Le Pen e degli inglesi attratti dal populismo di Nigel Farage. Gli elettori italiani, secondo un sondaggio realizzato dal centro demoscopico americano Pew Research Center, “appaiono sempre più critici delle istituzioni europee e sono divisi sull’opportunità di mantenere l’euro” e vincono così la palma dell’euroscetticismo. Una fotografia a pochi giorni dalle elezioni europee che mostra come, pur rimanendo forte e diffuso il sentimento di sfiducia nei confronti di Bruxelles, si registri una “timida ripresa” dell’immagine della Ue, dopo il tracollo negli anni bui della crisi del debito. L’Italia, a pochi giorni dalle elezioni europee, sembra esclusa dal trend di “timida ripresa” nei confronti della Ue che si manifesta nell’eurozona. Al contrario, il nostro Paese registra un netto peggioramento del sentimento nei confronti di Bruxelles e rimane l’unico a “flirtare con l’idea di lasciare l’euro”. Il sondaggio, realizzato nei sette maggiori paesi dell’Unione (Francia, Gran Bretagna, Germania, Polonia, Spagna, Grecia e Italia), registra infatti che in media il 52% degli europei intervistati ha un’opinione favorevole della Ue, con un più 6% rispetto al 2013. Rimane comunque alto il numero degli europei, il 71%, che ritiene che la propria voce non venga ascoltata dalle istituzioni europee che non comprendono le esigenze dei cittadini (65%), violano la loro privacy (63%) e sono inefficienti (57%).

L’Euro e il ritorno alla lira – Per gli analisti, che registrano un sentimento di “amarezza” nel nostro paese, il 44% degli italiani esprimerebbe il desiderio di tornare alla lira, e il sostegno alla moneta unica è precipitato di 19 punti in un anno, mentre rimane forte non solo in Germania (72%) e Francia (64%), ma anche in paesi travolti dalla crisi come la Grecia (69%) e la Spagna (68%). Riguardo poi al prossimo appuntamento elettorale del 25 maggio, si sottolinea che mentre in Italia, Gran Bretagna, Polonia e Germania sono gli elettori vicini alla destra ad essere euroscettici, in Spagna e Grecia le critiche arrivano maggiormente da elettori di sinistra. Un capitolo a parte meritano i risultati registrati tra i tedeschi che sembrano “vivere in un continente differente”: se appena il 10% degli europei intervistati ritiene che l’economia vada bene, in Germania sono l’85% a crederlo. E in Italia, invece, il 96% ritiene che l’economia vada male.

Tornando però alla ripresa di sentimento di fiducia, anche se si è ancora lontani da livelli precrisi, è la Francia a guidare il trend positivo, con un più 13%, che viene anche confermato anche dalla Spagna, +4%. Solo in Italia la fiducia nell’Europa è precipitata del 12% dallo scorso anno – quando però, va notato, era al 58%, ben più alta della media europea del 46% – rendendoci secondi solo ai greci, tra i quali il ‘sentiment’ per l’Europa è comunque salito dal 33% al 34%. Non solo: il 74% degli italiani crede, stando a questo sondaggio, che l’integrazione economica europea ci abbia indeboliti. Solo il 9% sarebbe convinto del contrario, mentre anche su questo fronte il sentimento degli altri europei sembra orientato verso un trend più positivo: non solo i tedeschi – con il 63%, più 9% rispetto allo scorso anno – o i polacchi – con un più 12% che li porta al 53% con gli analisti del Pew che li descrivono come i più forti sostenitori della Ue – ma anche per i greci, con un 17% che segna un balzo in avanti di sei punti. Persino tra gli euroscettici per definizione, i britannici, convinti assertori dell’opting out, si registra uno sbalzo in avanti di 15 punti, dal 26% al 41%, nella convinzione che l’integrazione economica europea faccia bene all’economia nazionale. E anche la percentuale dei britannici che vogliono rimanere nella Ue, il 50%, è superiore a quella di chi vorrebbe lasciarla, il 41%.
2014-05-15 20:18:28
E questa invece???

Crescita, Istat: nel primo trimestre Pil giù dello 0,1%. Livello più basso dal 2000

Con le borse giù in picchiata e lo spread da 150 a 180....
Oh, Renzi, ormai gli 80 euro li voglio eh!
Dite che li prenderò...?
2014-05-15 20:26:23
ho scritto 2 righe in "politica"
2014-05-16 20:16:20
Quella degli 80 (che poi sono un po' più di 50), è un'idea corretta. Andrebbe estesa e difesa, e non vilipesa.

Il punto è che per quanto un massaggino ai muscoli e una bevuta energizzante possano essere d'aiuto a fine ripresa, se si rimane sul ring a braccia legate dietro la schiena a prendere cazzotti, il massaggino e la bevuta non cambiano le sorti dell'incontro.

Bisogna scendere dal ring, farsi slegare le braccia, e processare gli allenatori che in questi decenni ci hanno costretti ad incontri col verdetto già scritto.
2014-05-17 04:17:59
Bagnai ci spiega le "fughe di capitali" e le "code agli sportelli"....

Bank run e svalutazione secondo Ric e Tom (i nuovi comici)
Un po' di euro-terrorismo...
Consigliata la lettura agli amanti dei film horror (di serie C)...

Euro, uscire dalla moneta unica costa caro. Ai cittadini ma anche alle imprese
2014-05-19 21:26:46
Ne ho letto una sempre sul fatto, vergognosa.
Vergognosa.
E dire che uno dei redattori dei 4gatti lo conosco e ci ho parlato un mesetto fa. Ma niente. Molti (se non tutti) sono italiani all'estero senza la minima percezione della realtà.
2014-05-20 14:55:37
la Grecia è stato il più grande successo dell'euro

2014-05-22 00:21:47
maggio 21, 2014 posted by admin
Cosa succederebbe ai Risparmi in caso di Uscita dall’Euro


Guest post di Paolo Cardena’ di Vincitori e Vinti

Molti “autorevoli commentatori” sostengono che in caso di uscita dell’Italia dall’euro, i risparmi subirebbero delle gravi perdite per effetto della svalutazione che ne seguirebbe. Per di più, usano questo tipo di affermazioni per cercare di incutere terrore verso l’opinione pubblica (in questo caso i risparmiatori), al fine di veicolare il consenso a favore della permanenza dell’Italia nella moneta unica euro. Il tema dell’euro, oltre ad essere di estrema importanza, è anche di difficile comprensione, poiché presuppone delle conoscenze economiche che non tutti hanno o possono avere. Ecco quindi che esercitare pressioni sull’opinione pubblica evocando scenari apocalittici, appare un atto censurabile sotto ogni punto di vista, solo per usare un eufemismo.
Chi scrive, pur lodando il dibattito (quello serio) che eminenti economisti sono stati capaci di stimolare aprendo gli occhi all’opinione pubblica meno preparata e meno sensibile al tema, teme che questo grande impegno porti a ben poco, in termini concreti. Per il semplice motivo che noi non abbiamo una classe politica capace di assumere una scelta così importante, che peraltro distruggerebbe l’enorme investimento del patrimonio politico che la creazione dell’euro ha presupposto negli ultimi 50 anni di storia politica europea. L’omertà (e l’ignoranza) che sovrasta la scena politica italiana sul tema euro ne costituisce esempio tangibile. Come dire: sono tutti allineati e coperti a difesa dell’indifendibile. Forse per loro personale tornaconto, o forse per mantenere più a lungo possibile lo status quo della nomenclatura politica europea. Ovviamente fin quando non si giungerà alla catastrofe, che a mio avviso, perdurando simili condizioni, non tarderà ad arrivare.
Quindi, credo che l’Italia, anziché governare un eventuale uscita dall’euro, sarà destinata a subirla nel caso in cui qualche altro paese (magari fondatore) dovesse sganciarsi per primo dall’unione monetaria, provocando la dissoluzione della moneta unica. Mi viene in mente la Francia, visto che da quelle parti il dibattito sul tema euro è molto in avanti rispetto che in Italia, ed esiste un partito no-euro che è dato favorito nei sondaggi. Detto questo, non appare affatto remota la possibilità che l’Italia si trovi a dover affrontare questa eventualità (quella della dissoluzione dell’euro) in maniera del tutto impreparata e senza un piano “B” che gli consenta di contrastare, per quanto possibile, lo shock che ne deriverebbe.
Ma tornando al tema di fondo di questo post, le cose non stanno proprio nei termini espressi dagli ”autorevoli commentatori” di cui abbiamo accennato in apertura dell’articolo. Cerchiamo di capire perché, auspicando di farlo con più pragmatismo possibile.
Nel misero dibattito politico, che va ritualmente in onda a reti unificate, c’è chi si spinge ad ipotizzare che l’Italia, in caso di dissoluzione della moneta unica e ritorno alle valute nazionali, svaluterebbe nei confronti del marco di un possibile 30-40% o forse più. Va preliminarmente precisato che nel panorama scientifico, al momento, non esiste nessuno studio degno di credibilità che possa confermare questa tesi. Al contrario esistono molti precedenti storici relativi a dissoluzioni di unioni monetarie che dicono che, verosimilmente , la moneta che si sgancia da una unione monetaria (o dalla moneta a cui era agganciata), tenderebbe a svalutarsi di un livello simile al differenziale di inflazione cumulato durante il periodo di vigenza dell’unione. Quindi, ipotizzando che il differenziale di inflazione accumulato con la Germania sia di circa il 20%, è del tutto plausibile che potrebbe essere questo il livello di svalutazione della nuova lira rispetto al marco, o poco più. Andrebbe anche osservato che l’interesse della Germania non è quello di affossare il cambio della nuova lira rispetto a quel che rimarrebbe dell’euro (ben poco credo) o rispetto al nuovo marco; se non altro perché, questo, oltre a mettere in serie difficoltà il comparto bancario tedesco esposto nei confronti del debito italiano, consentirebbe all’Italia di guadagnare consistenti quote di mercato sottraendole alla stessa Germania. Quindi non sarebbe affatto remota la possibilità che la Germania compri carta (lira) italiana, sostenendo sia il cambio che il valore dei titoli di Stato. Questo consentirebbe anche alle banche tedesche esposte sul debito italiano di assorbire progressivamente lo shock che eventualmente ne deriverebbe. Pertanto credo che sia interesse della Germania evitare che la lira svaluti di molto e in modo violento.
Per effetto della svalutazione che la lira subirebbe, molti commentatori sostengono che i risparmi patirebbero una riduzione di egual valore. Per smentire questa tesi che risulta assai opinabile, partiamo da un punto fermo, che è quello che tutte le attività e le passività vengano denominate nella nuova lira in rapporto UNO a UNO: UNA NUOVA LIRA per ogni EURO, lasciando poi il cambio libero di fluttuare. Ciò significa che i mutui, gli stipendi e tutti i risparmi (conti deposito, risparmio postale, fondi comuni, azioni ecc) verrebbero convertiti in nuova lira che, come dicevamo, dovrebbe svalutarsi di un quantum. Ecco, il punto è cosa si svaluta e rispetto a cosa si svaluta.
Prendiamo il risparmio, ad esempio. Se oggi dispongo di 100.000 euro in un conto deposito in italia, domani avrò 100.000 lire sullo stesso conto deposito, che, ipotizzando una svalutazione del 20% rispetto al nuovo marco (ma non è detto), consentono di acquistare 80 mila marchi. Il punto è: per che cosa mi occorrono i marchi? Qual’è l’utilizzo che ne debbo fare? Se dovessero occorrermi per acquistare una casa in Germania del valore di 100 mila marchi e che magari prima avrei potuto comprare a 100 mila euro ( gli stessi che io avevo sul c/c) allora, in questo caso, subirei una svalutazione del mio risparmio del 20%, o di un livello in perfetta sintonia alla svalutazione che la nuova lira subirebbe nei confronti del nuovo marco. Così come la subirei nel caso dovessi recarmi in Germania per motivi di lavoro, vacanza o studio, spendendo marchi in Germania, che dovrebbero essere acquistati con una lira svalutata. Ma se io non avessi questo tipo di esigenze (cioè l’esigenza di comprare una casa in Germania o trasferirmi per vacanza, studio o lavoro) e la mia esistenza si svolgesse in Italia così come le mie spese, la svalutazione rispetto al marco che deriverebbe da un ritorno alle valute nazionali, non mi colpirebbe affatto e sarebbe un fattore del tutto marginale. Specularmente, in caso di dissoluzione dell’euro e ritorno alle valute nazionali, è verosimile (certo) che la nuova lira si rivaluterebbe molto rispetto alla nuova dracma, magari del 20-25%, o forse più. Quindi, se io dovessi acquistare una casa in Grecia che prima mi sarebbe costata 100.000 euro (gli stessi che avevo in deposito sul conto corrente italiano), con la nuova lira (rivalutata del 20-25%) potrei comprarmi quella casa e anche un pezzo di una seconda casa, sempre che ne abbia bisogno. Oppure una casa più grande e di maggior valore. Discorso analogo si può osservare se dovessi recarmi in Grecia per vacanza o lavoro, perché è chiaro che acquisterei dracme ad un cambio per me più favorevole in conseguenza del fatto che la mia lira si è rivalutata rispetto alla Dracma. Quindi, il discorso della svalutazione è del tutto relativo, perché la rivalutazione e la svalutazione generano rispettivamente guadagni o perdite a seconda dei casi, a seconda delle specifiche esigenze e a seconda dei comportamenti degli individui e degli agenti economici. Anche se, per una maggiore valutazione dell’impatto che potrebbe avere l’introduzione di una nuova lira in termini di svalutazione o rivalutazione si dovrebbe considerare anche il grado di apertura e interconnessione dell’economia italiana (e quindi anche gli scambi commerciali in entrata ed in uscita) verso quelle economie nei confronti delle quali la lira potrebbe svalutare o rivalutare, per poi tirare le somme.
Diciamo anche che, per i risparmiatori, la svalutazione della nuova lira potrebbe essere un’occasione di guadagno, qualora avessero risparmi (titoli, fondi comuni, azioni ecc ecc) investiti in attività estere oggetto di rivalutazione nei confronti della nuova lira. Ad esempio, se il mio fondo comune investe in bond denominati in Usd, considerando che il dollaro Usa si rivaluterebbe, in caso di liquidazione delle quote del fondo, porterei a casa una plusvalenza pari alla rivalutazione del dollaro sulla Lira. Anzi, se le cose dovessero andare per come le abbiamo appena descritte, è anche verosimile attendersi un ritorno di capitali attualmente allocati all’estero, proprio per sfuggire dal rischio derivante dalla ristrutturazione del debito italiano. Questi investitori, per monetizzare i guadagni derivati dalla rivalutazione della valuta in cui sono allocati i risparmi, potrebbero liquidare i propri investimenti, riportare in Italia i capitali, e magari investirli sul debito italiano o altre attività presenti nel paese, contribuendo ad aumentarne (o stabilizzarne) il valore.
Va detto, quindi, che la perdita che potrebbero patire i risparmiatori non è tanto riconducibile alla svalutazione (per i motivi su esposti) ma ad altri 2 fattori: l’inflazione che deriverebbe da una svalutazione, e la diminuzione del valore degli investimenti per effetto della “caduta” più o meno profonda che potrebbe innescarsi sui mercati a seguito di questo evento.Sul primo punto esistono autorevoli studi che affermano l’inesistenza di una correlazione diretta tra svalutazione ed inflazione. E i precedenti storici che riguardano il nostro paese confermano tale tesi. Ad esempio, nei due anni successivi l’introduzione dell’euro, la moneta unica si svalutò di circa il 20/25% nei confronti del dollaro e questa svalutazione non si tradusse in livelli alti di inflazione, che pertanto rimase sotto controllo. Andando ancor più indietro nel tempo, si potrebbe ritornare al 1992 e agli anni successivi, quando in Italia, a seguito dell’uscita dallo SME, la svalutazione fu assai più accentuata. Anche in questo caso, non vi fu alcuna fiammata inflazionistica, e, nonostante l’entità della svalutazione, l’inflazione che ne derivò fu del tutto contenuta (intorno al 5%), ben inferiore ai livelli che oggi vengono ipotizzati in caso di uscita dall’euro. Proseguendo nel nostro ragionamento, credo che si possa concordare sul fatto che un eventuale eurexit produrrebbe delle tensioni sui mercati e quindi un aumento dell’avversione nei confronti dell’Italia da parte degli investitori esteri, che venderebbero titoli in portafoglio generando ribassi dei corsi azionari e obbligazionari. E anche in questo caso ci sono dei MA. E’ chiaro che, da un eventuale uscita dall’euro, le aziende orientate verso i mercati esteri ne trarrebbero un maggior vantaggio, poiché venderebbero i loro prodotti a prezzi più competitivi rispetto agli attuali. Quindi non è detto che queste subiscano dei deprezzamenti così consistenti, che comunque, se così fosse, dovrebbero essere recuperati in tempi relativamente brevi. Discorso diverso (e anche più problematico), invece, riguarda quelle aziende (non solo quotate) con una forte esposizione debitoria estera, a fronte di contratti governati da leggi estere e quindi non soggette al diritto italiano. Considerata l’impossibilità di ridenominare questi contratti nella nuova lira, queste aziende si troverebbero a dover ripagare i loro debiti in una valuta (magari dollaro) rivalutata rispetto alla lira, e quindi credo che qualche serio problema lo avrebbero. Non è neanche detto che queste possano riassorbire il maggior onere derivante da debiti espressi in valuta estera (rivalutata, quindi) grazie ad un aumento dei ricavi per via di maggiori esportazioni come conseguenza di un cambio più favorevole. Quindi, a mio modesto avviso si dovrebbe intervenire con linee di credito dedicate o comunque con altre soluzioni idonee a smaltire il maggior onere sostenuto.
Discorso analogo, a proposito di debito estero, vale per il comparto bancario. Ma in questo caso ci sarebbe da considerare l’aggravante titoli di stato in pancia alle banche italiane: quasi 400 miliardi di euro. È chiaro che il deprezzamento dei titoli di stato causato dalla fuga degli investitori esteri metterebbe sotto serie pressioni i deboli bilanci bancari, già assai fragili per via delle sofferenze derivanti dai crediti inesigibili, che hanno generato forti pressioni sul patrimonio dei singoli istituti. Ma è altrettanto chiaro che un’uscita concordata dall’euro o la sua dissoluzione ordinata potrebbe mitigare di non poco gli effetti che si determinerebbero a causa dell’avversità degli investitori esteri al rischio Italia. In alternativa la Banca d’Italia dovrebbe agire per sostenere i valori del debito in pancia alle banche, acquistandoli . Oppure il debito dovrebbe essere ricomprato dai risparmiatori italiani, magari grazie ad un ritrovato slancio di unità nazionale e a un colpo di orgoglio da parte degli italiani. Ma non sarebbe da escludere l’ipotesi che una parte non del tutto inconsistente del sistema bancario potrebbe essere nazionalizzata, ripulita (dalle sofferenze), ristrutturata e poi rimessa sul mercato in tempi successivi, magari generando anche occasioni di profitto per lo Stato. La nazionalizzazione di alcune banche in difficoltà, a dire il vero, non sarebbe fatto remoto nemmeno rimanendo nell’euro, per via delle sofferenze che incombono sui bilanci delle banche; ammesso che il governo italiano riesca a trovare i soldi per ricapitalizzare un numero non del tutto trascurabile di banche che navigano in brutte acque e sempre ammesso che non voglia far pagare pegno agli azionisti, agli obbligazionisti, e ai depositanti, come i recenti orientamenti europei sembrano voler suggerire (Cipro docet). Tuttavia giova anche segnalare il fatto che l’Italia, per gli investitori esteri, rappresenta anche un ottimo mercato di riferimento nel quale fare ottimi affari. Quindi non è affatto detto che gli investitori internazionali non possano avere un atteggiamento più mite rispetto a quello che, forse troppo facilmente, si è inclini a ritenere. Sotto questo punto di vista ritengo che un grande contributo dovrebbe giungere dalla politica e dai messaggi rassicuranti che i leaders europei saranno in grado di trasmettere, nell’interesse di tutti, nelle fasi immediatamente successive all’annuncio, auspicabilmente concordato. Tornando al tema del risparmio e agli effetti che potrebbe determinare l’uscita dall’euro, possiamo sbilanciarci nel dire che molto dipenderà anche dal genere di investimento effettuato dal risparmiatore. Ad esempio, se si fossero acquistate obbligazioni, queste, nonostante una perdita di valore (prezzo) che potrebbero subire durante la loro vita (anche in virtù delle turbolenze che potrebbero manifestarsi sui mercati come conseguenza dell’uscita di qualsiasi Nazione della moneta unica, e quindi non solo dell’Italia), verrebbero comunque rimborsate a scadenza al prezzo determinato all’atto dell’emissione del titolo, cioè alla pari in genere.
Discorso diverso riguarda i titoli azionari che, per loro natura, essendo delle classi di investimento in via di principio più rischiose rispetto alle obbligazioni, incorporano la possibilità di perdite maggiori, la cui eventualità di verificarsi dovrebbe essere nota al risparmiatore che investe in questa tipologia di attività. Giova ricordare che già dal 2012, Banca Unicredit, in occasione dell’aumento di capitale da 7,5 miliardi di euro, nel prospetto informativo dell’offerta di azioni, contemplò la possibilità che l’eventualità di una dissoluzione della moneta unica o più semplicemente di ritorno alla lira, avrebbe potuto incidere negativamente sul valore del titolo. Successivamente anche altre banche hanno seguito l’esempio di Unicredit nel dotarsi di precauzioni simili nell’ambito della documentazione ufficiale relativa ad operazioni straordinarie. Quindi, il rischio dovrebbe esser noto a chi investe in azioni o in titoli che incorporano già per loro natura la possibilità di oscillazioni, piccole o grandi che siano. Tuttavia, se è vero che una svalutazione della nuova lira potrebbe favorire l’espansione del ciclo economico, appare logico ritenere che le perdite potrebbero essere riassorbite in orizzonti temporali relativamente brevi, per effetto di un maggior vigore del ciclo economico. Ma questo aspetto è tutto da verificare,
Concludendo il nostro ragionamento, possiamo affermare che l’uscita dall’euro non sarà sicuramente una passeggiata e avrà dei costi ma anche dei benefici, riconducibili principalmente alle possibilità derivanti da una ritrovata autonomia monetaria e fiscale, che tuttavia dovrebbero essere attuate implementando comunque le riforme di cui l’italia ha bisogno. Nessuna persona dotata di buon senso si sognerebbe di affermare che l’eventuale uscita dalla moneta unica non avrebbe anche delle controindicazioni. Ma accanto a queste, andrebbero valutati anche i costi (a mio avviso superiori) che la permanenza nell’euro presuppone.
L’alternativa al non agire sarebbe un lungo e doloroso processo di impoverimento generalizzato, peraltro già in atto da diversi anni, che potrebbe anche accelerare viste le pessime condizioni in cui versa l’italia. Il risultato di questa inerzia sarebbe quello di giungere tra qualche anno alla stessa soluzione (cioè all’uscita dall’euro differita), ma con un tessuto produttivo e sociale molto più compromessi di quanto lo siano oggi, e con il risparmio degli italiani assai più ridotto rispetto ad oggi. Di conseguenza anche la capacità di reazione e di recupero dell’Italia sarebbe assai più limitata di quanto lo sia tuttora.
Evocare scenari apocalittici o affermare che i risparmi verrebbero distrutti, oltre a non fondarsi su alcun elemento scientifico certo e condivisibile, appare assai mistificatorio. Soprattutto alla luce del fatto che, anche permanendo nell’euro, non è affatto remota la possibilità che si possa giungere ad una ristrutturazione del debito pubblico (LEGGI: L’ITALIA PUO’ FALLIRE, ORA ANCHE PER LEGGE) con conseguenti perdite a carico dei risparmiatori. Senza poi dimenticare che molti politici italiani, personaggi della finanza e del mondo economico, sia italiani che di altre nazioni, per loro stessa ammissione, suggeriscono e sarebbero favorevoli all’introduzione di una imposta patrimoniale (anche da 400 miliardi di euro) finalizzata all’abbattimento del debito pubblico (LEGGI: TUTTI QUELLI CHE VOGLIONO I VOSTRI RISPARMI). Patrimoniale, neanche a dirlo, pagata dai risparmiatori. Questa si che sarebbe una vera e propria distruzione e sottrazione di ricchezza.

http://scenarieconomici.it/succederebbe-risparmi-in-caso-uscita-dalleuro/
2014-05-23 11:53:53
altro articolo pro-euro sul Fatto (molto attivo su questo fronte ultimamente...)

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/23/uscire-dalleuro-svalutare-in-un-mondo-globalizzato/996689/
2014-05-23 12:05:32
hanno inglobato i vari "esperti" di lavoce.info,
gente esperta come T. Boeri (bocconiano, economista esperto del mercato del lavoro che parla di ec. monetaria) per dire..

cmq un art. che recita:
La tesi sostenuta da chi auspica un ritorno alla lira è molto semplice: “se tornassimo padroni della nostra moneta, potremmo monetizzare il nostro debito e compiere svalutazioni competitive per stimolare la domanda dei nostri beni da parte dei mercati esteri”.

è da LOL, neanche sanno quello che vogliono contestare, o forse fanno quel vecchio trucco della mutatio controversiae..

edit:
leggendo queste analisi poi si nota l'impostazione di base (supply side per dirla anglofona) di questi "esperti".
In pratica l'idea è che la bilancia commerciale si valuta sull'esport equindi cercano (in modo involontariamente comico) di spiegarci con una retorica tecnica da supercazzolari, che se i prezzi dei beni italiani si abbassano all'estero il guadagno non viene in Italia (stralol, il problema non era quello però..)

si dimenticano quel piccolissimo punto della bilancia commerciale che si chiama IMPORT. Sai com'è, quando si ha un regime da difendere può capitare di fare certi errorucci..
(edited)
2014-05-23 12:15:31
è assolutamente una mutatio controversiae, per carenza di controargomentazioni.
un altro argomento classico dei pro-euro è che gli altri sono "fuori dall'euro fuori dall'europa", sovrapponendo eurozona e unione europea (dimenticando che si può essere fuori dalla prima e dentro la seconda)
stessa tecnica che viene adottata anche per contrastare le indipendenze di scozia, catalogna e veneto: "stati troppo piccoli per competere nel mondo globale contro cina e usa", come se invece italia, spagna, regno unito fosseo grandi per competere con cina e usa...
2014-05-23 12:28:48
si ma la cosa che dimostra in modo incontrovertibile la malafede è la completa assenza della valutazione degli effetti sulle importazioni.

E' inconcepibile che "se ne siano dimenticati"..