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Subject: Crisi economica
MILANO - La Banca Popolare di Vicenza ha chiuso l'offerta pubblica di transazione (Opt) con i soci 'azzerati' raccogliendo adesioni pari al 70,3% delle azioni incluse nel perimetro della proposta, al netto dei soci irreperibili e delle posizioni già oggetto di specifica analisi. E se ha festeggiato per aver raggiunto l'obiettivo minimo che si era prefissa, la banca non ha stappato prosecco per i risultati di bilancio. L'esercizio 2016 si è chiuso con una perdita di 1,9 miliardi di euro, dopo gli 1,4 miliardi di rosso accumulati nel 2015. Sul risultato, si legge in una nota della banca, hanno pesato accantonamenti e rettifiche per 1,72 miliardi di euro.
Per risollevarsi, la Vicenza ha chiesto la Bce di autorizzare l'ingresso dello Stato nel capitale. Il ricorso agli aiuti di Stato "è un processo articolato e complesso, che richiede la preventiva decisione della Direzione Generale della Concorrenza (DG Comp) della Commissione Europea sulla compatibilità dell'intervento con la normativa in materia di aiuti di Stato i cui esiti sono allo stato incerti". "Il rafforzamento patrimoniale rappresenta un presupposto per la continuità aziendale e per il positivo completamento dell'operazione di fusione".
Il peggioramento degli indici di liquidità, invece, ha spinto la banca a chiedere alla Banca d'Italia e al Ministero dell'Economia di poter emettere altri titoli con garanzia dello Stato fino a un massimo di 2,2 miliardi con una durata di 3 anni. Nel mese di marzo la situazione della liquidità "è peggiorata quale conseguenza della significativa uscita di raccolta commerciale a seguito dei timori di bail-in connessi alle incertezze sul processo di ricapitalizzazione". Nel 2016 la raccolta diretta era già scesa del 14,4% a 18,8 miliardi per via degli "impatti reputazionali" sul gruppo.
I requisiti patrimoniali consolidati pro-forma della Banca Popolare di Vicenza al 31 dicembre, includendo la seconda tranche del versamento in conto futuro aumento di capitale effettuato dal Fondo Atlante, si attestano all'8,21% per quanto attiene al Cet 1 ratio e al Tier 1 ratio e al 9,61% per quanto attiene al Total capital ratio. Il Cet1 è inferiore al target Srep fissato dalla Bce al 10,25%. Lo si legge in una nota della banca.
Nel dettaglio dell'offerta, la transazione si è rivolta a larga parte della base sociale della Banca Popolare di Vicenza, circa 94.000 azionisti, avviata il 10 gennaio e conclusasi alle ore 13.30, sulla base dei dati preliminari esaminati dal cda riporta adesioni di 66.712 azionisti, pari al 71,9% del totale, portatori del 68,7% delle azioni comprese nel perimetro dell'Offerta medesima. Al netto delle posizioni irrintracciabili e di quelle già oggetto di specifica analisi, la percentuale degli azionisti aderenti è pari al 72,9%, corrispondenti al 70,3% delle azioni BPVi rientranti nel perimetro dell'offerta di transazione. "Il cda - recita la nota - ha espresso la propria soddisfazione, ancorché non sia stata raggiunta la soglia di adesioni dell'80% prevista nel Regolamento dell'Offerta". Il cda ha poi chiesto alle strutture della Banca di completare nel minor tempo possibile i controlli necessari per disporre di un dato certo e definitivo così da consentire, per quanto possibile in occasione della riunione consiliare del 13 aprile di decidere in merito alla rinuncia alla condizione sospensiva rappresentata dal raggiungimento della soglia dell'80% delle adesioni e di procedere, conseguentemente, al versamento del riconoscimento economico di 9 euro per azione spettante agli azionisti che abbiano aderito all'offerta.
segnalo la parte in grassetto, per chi vuole capire davvero bene cosa c'è scritto azzardo una traduzione in malafede:
le regole attuali sul bail - in servono a impedire il risanamento delle banche che versano in situazione di crisi (dovute a deterioramento del credito concesso) a vantaggio delle loro concorrenti che hanno investito in prodotti finanziari.
In pratica i correntisti, che sono spaventati dal bail-in di una banca locale, spostano i loro soldi verso le banche speculatrici del nord europa (imbottite di derivati tossici, ma considerate solventi e non a rischio), quindi il tessuto produttivo e finanziario del paese occupato viene spremuto e distrutto, per salvare i banchieri del paese occupante.
Per risollevarsi, la Vicenza ha chiesto la Bce di autorizzare l'ingresso dello Stato nel capitale. Il ricorso agli aiuti di Stato "è un processo articolato e complesso, che richiede la preventiva decisione della Direzione Generale della Concorrenza (DG Comp) della Commissione Europea sulla compatibilità dell'intervento con la normativa in materia di aiuti di Stato i cui esiti sono allo stato incerti". "Il rafforzamento patrimoniale rappresenta un presupposto per la continuità aziendale e per il positivo completamento dell'operazione di fusione".
Il peggioramento degli indici di liquidità, invece, ha spinto la banca a chiedere alla Banca d'Italia e al Ministero dell'Economia di poter emettere altri titoli con garanzia dello Stato fino a un massimo di 2,2 miliardi con una durata di 3 anni. Nel mese di marzo la situazione della liquidità "è peggiorata quale conseguenza della significativa uscita di raccolta commerciale a seguito dei timori di bail-in connessi alle incertezze sul processo di ricapitalizzazione". Nel 2016 la raccolta diretta era già scesa del 14,4% a 18,8 miliardi per via degli "impatti reputazionali" sul gruppo.
I requisiti patrimoniali consolidati pro-forma della Banca Popolare di Vicenza al 31 dicembre, includendo la seconda tranche del versamento in conto futuro aumento di capitale effettuato dal Fondo Atlante, si attestano all'8,21% per quanto attiene al Cet 1 ratio e al Tier 1 ratio e al 9,61% per quanto attiene al Total capital ratio. Il Cet1 è inferiore al target Srep fissato dalla Bce al 10,25%. Lo si legge in una nota della banca.
Nel dettaglio dell'offerta, la transazione si è rivolta a larga parte della base sociale della Banca Popolare di Vicenza, circa 94.000 azionisti, avviata il 10 gennaio e conclusasi alle ore 13.30, sulla base dei dati preliminari esaminati dal cda riporta adesioni di 66.712 azionisti, pari al 71,9% del totale, portatori del 68,7% delle azioni comprese nel perimetro dell'Offerta medesima. Al netto delle posizioni irrintracciabili e di quelle già oggetto di specifica analisi, la percentuale degli azionisti aderenti è pari al 72,9%, corrispondenti al 70,3% delle azioni BPVi rientranti nel perimetro dell'offerta di transazione. "Il cda - recita la nota - ha espresso la propria soddisfazione, ancorché non sia stata raggiunta la soglia di adesioni dell'80% prevista nel Regolamento dell'Offerta". Il cda ha poi chiesto alle strutture della Banca di completare nel minor tempo possibile i controlli necessari per disporre di un dato certo e definitivo così da consentire, per quanto possibile in occasione della riunione consiliare del 13 aprile di decidere in merito alla rinuncia alla condizione sospensiva rappresentata dal raggiungimento della soglia dell'80% delle adesioni e di procedere, conseguentemente, al versamento del riconoscimento economico di 9 euro per azione spettante agli azionisti che abbiano aderito all'offerta.
segnalo la parte in grassetto, per chi vuole capire davvero bene cosa c'è scritto azzardo una traduzione in malafede:
le regole attuali sul bail - in servono a impedire il risanamento delle banche che versano in situazione di crisi (dovute a deterioramento del credito concesso) a vantaggio delle loro concorrenti che hanno investito in prodotti finanziari.
In pratica i correntisti, che sono spaventati dal bail-in di una banca locale, spostano i loro soldi verso le banche speculatrici del nord europa (imbottite di derivati tossici, ma considerate solventi e non a rischio), quindi il tessuto produttivo e finanziario del paese occupato viene spremuto e distrutto, per salvare i banchieri del paese occupante.
A parte che tra le grandi banche che ci guadagnano non ci sono solo le tedesche (francesi inglesi olandesi e spagnole ) l'analisi è corretta.
Del resto la ricetta per uscire dalla crisi delle banche too Big to fail non è spezzettarle in banche gestibili ma eliminare le banche piccole o costrigerle a unirsi in banche tbtf
La malafede e corruzione della politica (UE e usa senza distinzione ) è palese a chi vuole vedere
Del resto la ricetta per uscire dalla crisi delle banche too Big to fail non è spezzettarle in banche gestibili ma eliminare le banche piccole o costrigerle a unirsi in banche tbtf
La malafede e corruzione della politica (UE e usa senza distinzione ) è palese a chi vuole vedere
vai pupe, leggiti un po' di commenti ;)
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08/17/euro-stiglitz-doveva-portare-prosperita-ha-fatto-lopposto-ora-abbandonarlo-o-crearne-uno-per-il-sud-europa/2980000/
d'altra parte che vuoi che ne sappia un premio nobel...
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08/17/euro-stiglitz-doveva-portare-prosperita-ha-fatto-lopposto-ora-abbandonarlo-o-crearne-uno-per-il-sud-europa/2980000/
d'altra parte che vuoi che ne sappia un premio nobel...
studio della banca d'america sulle conseguenze di un'eventuale rottura dell'unione monetaria europea
pechino nella trappola del debito
ho letto velocemente, ma ci sono alcuni passaggi che i lasciano perplesso o non ho capito.
la domanda che viene a me è se smettessero di manipolare il cambio, quanto si autorisolverebbe la questione? quanto peggiorerebbe?
ma poi la vera domanda è: ridiscutere gli obiettivi no? (+6.5 di PIL REALE all'anno!!!)
(edited)
ho letto velocemente, ma ci sono alcuni passaggi che i lasciano perplesso o non ho capito.
la domanda che viene a me è se smettessero di manipolare il cambio, quanto si autorisolverebbe la questione? quanto peggiorerebbe?
ma poi la vera domanda è: ridiscutere gli obiettivi no? (+6.5 di PIL REALE all'anno!!!)
(edited)
http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2017-04-10/quello-che-maio-non-dice-o-forse-non-sa-195737.shtml?uuid=AEkZO02
non l'ho letto, ma mi sembra il solito terrorismo mediatico
"Se Francia e Italia uscissero dalla moneta unica, si verificherebbe il più grande default di tutta la storia dell’umanità, con crac bancari in tutta Europa."
non l'ho letto, ma mi sembra il solito terrorismo mediatico
"Se Francia e Italia uscissero dalla moneta unica, si verificherebbe il più grande default di tutta la storia dell’umanità, con crac bancari in tutta Europa."
http://quifinanza.it/soldi/dopo-la-repubblica-ceca-danimarca-pronta-a-sganciarsi-dalleuro/116172/
avviso in homepage del sole24h per i cazzari dell'economia del terrore che ci sono nei nostri media:
RIPOSIZIONATEVI!
Euro si o no
RIPOSIZIONATEVI!
Euro si o no
Che bel dibattito se già si parte con la "naturale svalutazione " della nuova lira. Quando gli ultimi studi internazionali vedono la svalutazione solo rispetto al nuovo marco :(
Ps: qualche giorno fa la cechia ha svincolato la corona dall'euro trovando una rivalutazione mentre si aspettavano svalutazione : come sta andando avanti il cambio?
Ps: qualche giorno fa la cechia ha svincolato la corona dall'euro trovando una rivalutazione mentre si aspettavano svalutazione : come sta andando avanti il cambio?
Alcohol e droghe mi portano a questa riflessione.
Spotify dovrebbe essere il manifesto di come funzionano le tasse.
Prima di Spotify la gente si comprava i dischi, le cassette e i CD.
Le compravano "in pochi" rispetto alla massa critica perché costavano tanto.
La maggior parte evadeva, quando possibile, clonando cassette, CD o scarrrricando gli MP3.
Poi arriva Napster et similia e sempre meno utenti fanno acquisti.
Alla fine il legislatore capisce e crea Spotify che offre la musica a un tot al mese e, anche se non sei proprio convinto, paghi per non rischiare
:)
W Spotify, la droga e l'alcohol
Spotify dovrebbe essere il manifesto di come funzionano le tasse.
Prima di Spotify la gente si comprava i dischi, le cassette e i CD.
Le compravano "in pochi" rispetto alla massa critica perché costavano tanto.
La maggior parte evadeva, quando possibile, clonando cassette, CD o scarrrricando gli MP3.
Poi arriva Napster et similia e sempre meno utenti fanno acquisti.
Alla fine il legislatore capisce e crea Spotify che offre la musica a un tot al mese e, anche se non sei proprio convinto, paghi per non rischiare
:)
W Spotify, la droga e l'alcohol
Questo di mestiere fa proprio studiare ste cose qui, notare come dal suo punto di vista comprimere i salari è la funzione naturale di un governo.. quando serve!
Da quando è entrata nell’euro, l’economia italiana è andata malissimo. Il Pil pro capite è più basso di com’era nel 1999 al momento della creazione della moneta unica. Questo significa che la popolazione italiana nel suo complesso oggi è più povera. Il contrasto con l’evoluzione del Pil pro capite dell’area dell’euro nel suo insieme è netto: gli altri Paesi dell’Eurozona hanno registrato un aumento del Pil pro capite del 15% dal 1999 a oggi. In altre parole sono diventati più ricchi del 15 per cento. Non una performance sbalorditiva, ma di sicuro molto migliore di quella italiana. Nessun altro Paese dell’Eurozona ha fatto peggio: perfino la Grecia se l’è cavata meglio.
Anche l’occupazione è andata male. La percentuale dei senza lavoro rimane ostinatamente su livelli alti, intorno al 12 per cento. Sì, ci sono due Paesi dell’Unione – Spagna e Grecia – che hanno un tasso di disoccupazione più alto, ma è sceso notevolmente da quando l’economia dell’Eurozona è ripartita, nel 2014, mentre in Italia no.
Lo stesso vale per il debito pubblico: dal 2014 il rapporto debito/Pil nell’Eurozona ha iniziato a scendere, mentre in Italia rimane inchiodato a più del 130% del Pil, un livello inferiore soltanto a quello della Grecia.
Perché l’economia italiana va così male? L’euro c’entra qualcosa? Sono domande che molti si pongono. La risposta a queste domande riveste una grande importanza per il futuro politico ed economico dell’Italia.
È evidente che l’Italia non ci ha guadagnato molto a stare nell’Eurozona. La si può vedere così: dal 1999, quando è stato creato l’euro, la competitività di molti Paesi dell’Europa meridionale (più l’Irlanda) ha subìto un notevole deterioramento, fino allo scoppio della crisi finanziaria del 2008. Rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona, l’Irlanda ha visto salire il costo unitario del lavoro del 45%, la Grecia del 35% e la Spagna del 28 per cento. Insomma, questi Paesi hanno subìto un pesantissimo calo della competitività, che ha penalizzato le esportazioni e determinato un forte disavanzo delle partite correnti. L’Italia è al terzo posto in questa classifica, con una perdita di competitività di quasi il 30 per cento. Come è accaduto per gli altri Paesi, questa perdita ha inciso pesantemente sulle esportazioni.
La grande differenza tra l’Italia e gli altri Paesi citati si è avuta dal 2008 in poi, quando Irlanda, Grecia e Spagna hanno avviato un processo di «svalutazione interna» (il termine usato dagli economisti per dire che questi Paesi hanno seguito politiche finalizzate a ridurre salari e prezzi rispetto agli altri membri dell’Eurozona), con risultati positivi. Queste svalutazioni interne hanno riportato la competitività ai livelli antecedenti alla nascita dell’Eurozona. L’Italia non ha seguito lo stesso percorso: a partire dal 2008, la sua svalutazione interna (misurata con la diminuzione del costo unitario del lavoro relativo) è stata inferiore al 10 per cento. Il risultato è che il Paese è gravato da una perdita di competitività che appare inchiodata al 20 per cento. In altre parole, in Italia il costo unitario del lavoro rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona è più alto del 20% dalla creazione dell’euro.
In un’unione monetaria è essenziale che quando un Paese perde competitività esista un meccanismo in grado di ripristinarla. Questo meccanismo sembra aver funzionato in Paesi come Irlanda, Spagna e Grecia. È molto doloroso e spesso è fortemente osteggiato da chi vede diminuire il proprio salario. Ma è anche inevitabile, nell’ambito di un’unione monetaria. Paesi come Irlanda, Spagna e Grecia sembrano essere riusciti a vincere l’opposizione alla svalutazione interna.
Il fatto notevole è che l’Italia non riesca a introdurre un meccanismo in grado di ripristinare la sua competitività, con il risultato è che questa perdita massiccia e incontrastata di competitività continua a erodere la sua capacità di esportazione. Se non si interviene, gran parte dei settori di esportazione del Belpaese scompariranno. Tutto questo è all’origine dell’incapacità dell’Italia di ricominciare a crescere e ridurre il suo indebitamento.
La conclusione che ricavo da quanto sopra è che l’Italia non sembra possedere le istituzioni politiche necessarie per imporre svalutazioni interne. Naturalmente, come si è detto prima, questo tipo di svalutazione interna è molto dolorosa e incontra forti resistenze, ma è necessaria se si vuole rimanere in un’unione monetaria. L’esperienza degli altri Paesi dell’Eurozona che avevano registrato un drastico calo di competitività dimostra che è politicamente possibile realizzare dolorose svalutazioni interne. A quanto sembra, però, in Italia non lo è.
L’inevitabile conclusione è che l’Italia non funziona bene in un’unione monetaria. Le sue istituzioni politiche la rendono inadatta all’Eurozona. Se queste istituzioni politiche non cambieranno radicalmente, l’Italia sarà costretta a lasciare la moneta unica: non può rimanere ferma a guardare il suo tessuto economico che continua a deteriorarsi.
Prima dell’arrivo dell’euro, quando l’Italia aveva una propria moneta, capitava spesso che perdesse competitività a causa dell’inflazione, ma riusciva sempre a ripristinarla attraverso le svalutazioni. Questo aveva creato un modello economico con frequenti crisi valutarie e inflazione alta. Non era un granché, ma almeno era coerente con la debolezza delle istituzioni politiche. In assenza di istituzioni politiche più forti, l’Italia dovrà prepararsi a un’uscita dall’euro nel prossimo futuro.
paul de grauwe
Da quando è entrata nell’euro, l’economia italiana è andata malissimo. Il Pil pro capite è più basso di com’era nel 1999 al momento della creazione della moneta unica. Questo significa che la popolazione italiana nel suo complesso oggi è più povera. Il contrasto con l’evoluzione del Pil pro capite dell’area dell’euro nel suo insieme è netto: gli altri Paesi dell’Eurozona hanno registrato un aumento del Pil pro capite del 15% dal 1999 a oggi. In altre parole sono diventati più ricchi del 15 per cento. Non una performance sbalorditiva, ma di sicuro molto migliore di quella italiana. Nessun altro Paese dell’Eurozona ha fatto peggio: perfino la Grecia se l’è cavata meglio.
Anche l’occupazione è andata male. La percentuale dei senza lavoro rimane ostinatamente su livelli alti, intorno al 12 per cento. Sì, ci sono due Paesi dell’Unione – Spagna e Grecia – che hanno un tasso di disoccupazione più alto, ma è sceso notevolmente da quando l’economia dell’Eurozona è ripartita, nel 2014, mentre in Italia no.
Lo stesso vale per il debito pubblico: dal 2014 il rapporto debito/Pil nell’Eurozona ha iniziato a scendere, mentre in Italia rimane inchiodato a più del 130% del Pil, un livello inferiore soltanto a quello della Grecia.
Perché l’economia italiana va così male? L’euro c’entra qualcosa? Sono domande che molti si pongono. La risposta a queste domande riveste una grande importanza per il futuro politico ed economico dell’Italia.
È evidente che l’Italia non ci ha guadagnato molto a stare nell’Eurozona. La si può vedere così: dal 1999, quando è stato creato l’euro, la competitività di molti Paesi dell’Europa meridionale (più l’Irlanda) ha subìto un notevole deterioramento, fino allo scoppio della crisi finanziaria del 2008. Rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona, l’Irlanda ha visto salire il costo unitario del lavoro del 45%, la Grecia del 35% e la Spagna del 28 per cento. Insomma, questi Paesi hanno subìto un pesantissimo calo della competitività, che ha penalizzato le esportazioni e determinato un forte disavanzo delle partite correnti. L’Italia è al terzo posto in questa classifica, con una perdita di competitività di quasi il 30 per cento. Come è accaduto per gli altri Paesi, questa perdita ha inciso pesantemente sulle esportazioni.
La grande differenza tra l’Italia e gli altri Paesi citati si è avuta dal 2008 in poi, quando Irlanda, Grecia e Spagna hanno avviato un processo di «svalutazione interna» (il termine usato dagli economisti per dire che questi Paesi hanno seguito politiche finalizzate a ridurre salari e prezzi rispetto agli altri membri dell’Eurozona), con risultati positivi. Queste svalutazioni interne hanno riportato la competitività ai livelli antecedenti alla nascita dell’Eurozona. L’Italia non ha seguito lo stesso percorso: a partire dal 2008, la sua svalutazione interna (misurata con la diminuzione del costo unitario del lavoro relativo) è stata inferiore al 10 per cento. Il risultato è che il Paese è gravato da una perdita di competitività che appare inchiodata al 20 per cento. In altre parole, in Italia il costo unitario del lavoro rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona è più alto del 20% dalla creazione dell’euro.
In un’unione monetaria è essenziale che quando un Paese perde competitività esista un meccanismo in grado di ripristinarla. Questo meccanismo sembra aver funzionato in Paesi come Irlanda, Spagna e Grecia. È molto doloroso e spesso è fortemente osteggiato da chi vede diminuire il proprio salario. Ma è anche inevitabile, nell’ambito di un’unione monetaria. Paesi come Irlanda, Spagna e Grecia sembrano essere riusciti a vincere l’opposizione alla svalutazione interna.
Il fatto notevole è che l’Italia non riesca a introdurre un meccanismo in grado di ripristinare la sua competitività, con il risultato è che questa perdita massiccia e incontrastata di competitività continua a erodere la sua capacità di esportazione. Se non si interviene, gran parte dei settori di esportazione del Belpaese scompariranno. Tutto questo è all’origine dell’incapacità dell’Italia di ricominciare a crescere e ridurre il suo indebitamento.
La conclusione che ricavo da quanto sopra è che l’Italia non sembra possedere le istituzioni politiche necessarie per imporre svalutazioni interne. Naturalmente, come si è detto prima, questo tipo di svalutazione interna è molto dolorosa e incontra forti resistenze, ma è necessaria se si vuole rimanere in un’unione monetaria. L’esperienza degli altri Paesi dell’Eurozona che avevano registrato un drastico calo di competitività dimostra che è politicamente possibile realizzare dolorose svalutazioni interne. A quanto sembra, però, in Italia non lo è.
L’inevitabile conclusione è che l’Italia non funziona bene in un’unione monetaria. Le sue istituzioni politiche la rendono inadatta all’Eurozona. Se queste istituzioni politiche non cambieranno radicalmente, l’Italia sarà costretta a lasciare la moneta unica: non può rimanere ferma a guardare il suo tessuto economico che continua a deteriorarsi.
Prima dell’arrivo dell’euro, quando l’Italia aveva una propria moneta, capitava spesso che perdesse competitività a causa dell’inflazione, ma riusciva sempre a ripristinarla attraverso le svalutazioni. Questo aveva creato un modello economico con frequenti crisi valutarie e inflazione alta. Non era un granché, ma almeno era coerente con la debolezza delle istituzioni politiche. In assenza di istituzioni politiche più forti, l’Italia dovrà prepararsi a un’uscita dall’euro nel prossimo futuro.
paul de grauwe