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Subject: Crisi economica

2013-04-06 15:51:28
nell'azienda in cui lavora mia moglie hanno ridotto l'orario di lavoro a 6 persone (una ora al 50%) ed una l'hanno licenziata, eppure l'iphone (700€) nuovo ad un paio da dirigenti è saltato fuori.
Adesso aspettiamo fine anno per vedere quanto bonus si prenderanno questi parassiti.
2013-04-09 15:21:56
io direi che è ora di sfatare sto mito dell'inflazione causata dalla quantità di denaro immessa..

in assato è sempre stato vero. dalla repubblica di weimar agli stati africani (zimbabwe se non sbaglio) a una produzione di moneta è sempre corrisposta un'inflazione anche maggiore.

perchè oggi non succede? perchè siamo in una situazione di crisi? anche la repubblica di weimar era in crisi, e lo era tutto il mondo industrializzatto (grande depressione, qualcuno ricorda?) eppure l'inflazione ci fu.
a mio parere, tutta questa moneta che si sta producendo in giro per il mondo (usa, cina, inghilterra, giapone) non produce inflazione perchè non va nell'economia reale ma resta a girare solo nel mondo finanziario. in pratica, si vuol curare un cocainomane in crisi di astinenza dandogli dosi sempre più forti!
2013-04-09 15:35:55
in assato è sempre stato vero. dalla repubblica di weimar agli stati africani (zimbabwe se non sbaglio) a una produzione di moneta è sempre corrisposta un'inflazione anche maggiore.

mi permetto di dissentire.
in passato è sempre stato vero che l'inflazione viene con la massima occupazione.
Certo che se sei in piena occupazione e immetti denaro c'hai più inflazione.

a mio parere, tutta questa moneta che si sta producendo in giro per il mondo (usa, cina, inghilterra, giapone) non produce inflazione perchè non va nell'economia reale ma resta a girare solo nel mondo finanziario.

a mio parere non si produce inflazione senza domanda e siccome siamo in crisi di domanda in quasi tutto l'occidente (grazie alle politiche neoliberiste del mercato del lavoro di thatcheriana eredità) non si produce alcuna inflazione.

D'altro canto il fornaio per decidere se aumentare il prezzo del filoncino, mica chiama Draghi e si informa di quanti euro sono stati stampati questa settimana..
magari si fa il conto di quanti ne ha venduti e di quanti ne venderebbe con il nuovo prezzo!!!
2013-04-09 17:38:15
a mio parere non si produce inflazione senza domanda e siccome siamo in crisi di domanda in quasi tutto l'occidente (grazie alle politiche neoliberiste del mercato del lavoro di thatcheriana eredità) non si produce alcuna inflazione

ecco il punto siamo in crisi di mancanza di domanda di beni e servizi. stampare o non stampare moneta è ININFLUENTE sulla domanda (come si vede dalla mancanza di inflazione), quindi non aiuta a uscire dalla crisi. se ci aggiungiamo che il mercato finanziario è IPERTROFICO, ogni aggiunta di moneta va diritta a crescere il bubbone che è già TROPPO cresciuto. in pratica si alimenta il problema
2013-04-09 20:02:02
ecco vedi, dipende..
quando stampi soldi poi ce li hai da spendere, no?
A seconda di cosa ci fai puoi stimolare anche i consumi e quindi fare ripartire l'inflazione oppure regalarli ai (corto)circuiti finanziari a ingigantire i meccanismi di debito/credito pubblici e privati.

Cmq questa lotta ideologica contro l'inflazione e le sue presunte cause è tutta frutto di un'invasione del neo liberismo e dele teorie monetariste nella politica. tali teorie di per se possono essere criticate (imho sono fallaci), ma andrebbero perlomeno conosciute un attimo...
invece ci troviamo ad applicarle gli Olly Rehn, o i Wolfgang Schauble di turno..
2013-04-10 14:35:22
quando stampi soldi poi ce li hai da spendere, no?
A seconda di cosa ci fai puoi stimolare anche i consumi e quindi fare ripartire l'inflazione oppure regalarli ai (corto)circuiti finanziari a ingigantire i meccanismi di debito/credito pubblici e privati.


e qundi il punto non è stampare o non stampare nuova moneta, ma quali settori dell'economia si vogliono aiutare. quando si è deciso questo aspetto si scelgono gli strumenti migliori x l'obiettivo che ci si pone. l'immissione di nuova moneta nel sistema è solo uno strumento per raggiungere l'obiettivo.
il problema è che l'obiettivo di tutti i governi (in usa come nell'ue) è esclusivamente di salvare il sistema finanziario
2013-04-10 14:52:28
cmq si deve sempre ricordare che gli unici che sono sicuri di perdere in un (molto eventuale) scenario inflattivo sono coloro che hanno prestato i soldi.

Fatevi da soli la domanda su chi è che ha prestato soldi a chi..
e che quindi ha interesse ad evitare ogni rischio inflattivo.
2013-04-15 13:01:34
Se riuscissi a destinare al finanziamento della cassa integrazione un altro miliardo di euro potrei dirmi soddisfatta, anche se c'é il rischio che possa non essere ancora sufficiente». Lo dice, intervistata dal Gr1 Rai, il ministro del Lavoro Elsa Fornero, in merito all'allarme per l'esaurimento delle risorse previste per la cassa integrazione. Alla leader della Cgil Camusso, che ha avvisato che le risorse potrebbero finire anche prima di giugno, Fornero risponde: «Io non so se i tempi che abbiamo a disposizione prima dell'esaurirsi delle risorse per la cassa integrazione siano ancora più stretti di quelli da me richiamati nei giorni scorsi, tra l'altro sulla base di dati ancora non definitivi forniti dalle Regioni: quello che so é che sono pienamente consapevole del problema e che noi, anche se siamo un governo in carica solo per l'ordinaria amministrazione, non rimarremo di certo con le mani in mano. Io posso promettere questo, e lo farò: finché sarò al ministero mi impegnerò al massimo per trovare almeno parte delle risorse necessarie. Ho già iniziato a predisporre un piano, ho incontrato le Regioni e le parti sociali, che tornerò ad incontrare questa settimana. Noi cerchiamo di fare tutto quello che é possibile sul fronte di nuove risorse» per finanziare la cassa integrazione.

Dove trovare però queste risorse? Sarà necessaria una manovra finanziaria aggiuntiva? «Sono convinta - risponde Fornero - che non ci deve essere un'altra manovra e mi fido a questo riguardo delle parole del ministro Grilli. Per finanziare gli ammortizzatori sociali dovrà essere seguita la strada che abbiamo già intrapreso: se riusciamo a ridurre ancora alcune voci della spesa pubblica possiamo trovare le risorse, almeno un po' delle risorse che sono necessarie per aiutare chi ha bisogno». Fornero, su questo punto, critica l'atteggiamento delle forze politiche: «Mi auguro siano consapevoli della gravità di questa emergenza ma qualche volta l'impressione é negativa. Mi sembra che le forze presenti in parlamento siano ancora più concentrate su questioni che riguardano l'esistenza e l'evoluzione dei partiti piuttosto che non ai problemi del Paese».

A confermare oggi l'allarme rosso lanciato dal ministro per le risorse, ormai esaurite, destinante a finanziare la cassa integrazione, anche le parole del segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, che sempre a a Rai Radio1 spiega che «Ci sono circa 700mila persone che hanno la cassa in deroga, i soldi per questa cassa sono finiti, e domani, sotto il Parlamento, Cgil, Cisl e Uil protesteranno perché devono rimpinguare le casse». Da qui a Natale, ha aggiunto Bonanni, «abbiamo bisogno di 1 miliardo e 200 milioni di euro, altrimenti il fiume di disoccupati, già grosso, si ingrosserà ancora di piu', rompendo gli argini della coesione sociale».

2013-04-20 07:24:55
Il Fatto Quotidiano > Blog di Stefano Feltri > I numeri sbagli...

I numeri sbagliati dell’austerità (e degli economisti)

di Stefano Feltri | 19 aprile 2013Commenti (165)


Da un paio di giorni la comunità degli economisti è sconvolta. Si è scoperto che uno degli articoli scientifici più influenti degli ultimi anni – oltre 2000 citazioni – era sbagliato. Nel 2010, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart di Harvard presentano un paper che sembra dare basi scientifiche e inconfutabili alle politiche di austerità: confrontano molti Paesi, tra il 1945 e il 2009, e scoprono che quelli con i conti più in ordine, cioè con un debito sotto il 30 per cento del Pil, sono cresciuti in media del 4,1 per cento. Quelli con debito tra il 30 e il 90 del Pil del 2,8. Invece quelli con più del 90 per cento (tipo l’Italia) hanno avuto una crescita media negativa, -0,1. Traduzione di politica economica: quando il debito diventa troppo elevato, il cappio degli interessi porta il Paese in recessione. Dunque ridurre il debito pubblico a colpi di tagli e tasse è, per quanto sgradevole, necessario per tornare alla prosperità.
Tre anni dopo, due professori della Amherst in Massachusetts, Robert Pollin e Michael Ash affidano a un loro studente, Thomas Herndon, un esercizio classico ma poco praticato: prendere i dati su cui si basa una famosa ricerca e rifare i conti, come forma di esercizio (quello che dovrebbero fare, ma spesso non fanno, le riviste accademiche prima di pubblicare gli articoli). Risultato: i conti di Rogoff e Reinhart erano sbagliati, pare per colpa di un problema del software Excel che ha escluso alcuni Paesi e alcuni anni che avrebbero cambiato il risultato. I “revisori” ottengono infatti numeri assai differenti: i Paesi con il debito sopra il 90 per cento sono cresciuti, in media, il 2,2 per cento all’anno invece che -0,1 come stimato da Rogoff e Reinhart. Forse un po’ poco, ma niente di drammatico. Nessun politico rischierebbe la rielezione per imporre tagli e aumenti delle imposte sapendo che un debito alto comporta soltanto una crescita un po’ più bassa.

I due economisti di Harvard, che hanno usato le loro ricerche per un best-seller internazionale, ‘Questa volta è diverso’ (Il Saggiatore), ammettono gli errori ma si difendono così: anche nella nuova versione i calcoli dimostrano che i Paesi ad alto debito crescono in media meno di quelli con debiti bassi. Forse è vero. Ma questo ci permette di dire con sicurezza che alto debito e bassa crescita spesso si riscontrano assieme. Ma non è detto che il debito sia la causa della scarsa crescita. Potrebbe anche essere il contrario.

Comunque, grande scandalo: Paul Krugman, sul suo blog, smonta con gusto tutto il lavoro di Reinhart e Rogoff. Così come pochi mesi fa aveva assistito compiaciuto al mea culpa di Olivier Blanchard, il capo economista del Fondo monetario internazionale: dopo aver spinto per anni per il rigore e la riduzione del deficit, al Fmi si sono accorti che avevano sbagliato i moltiplicatori. Cioè che ogni taglio alla spesa pubblica in tempo di recessione aveva conseguenze sul Pil più gravi del previsto.

In alcuni blog il caso Rogoff&Reinhart è presentato come la definitiva perdita di credibilità degli economisti. Ma se l’economia ambisce a essere una scienza (sia pure sociale), deve sottoporsi al requisito minimo di Karl Popper: le teorie devono essere falsificabili, altrimenti sono richieste di fede. Da quando l’economia si è separata dalla filosofia e dall’etica per sposare la statistica ed evolversi in econometria, le idee devono camminare sui numeri. E se i numeri non le confermano, le idee vanno cambiate.

Quindi, tutto sommato, il grande scandalo è in realtà una buona notizia: uno studente qualsiasi può smentire i luminari di Harvard e, se ha ragione, loro devono chiedere scusa, non c’è principio di autorità che tenga. Però a differenza di altre scienze, il laboratorio dell’economia è la società: il prezzo degli errori lo pagano le persone.

In questi anni molti politici hanno trovato comodo usare gli economisti come oracoli, usando locuzioni come “lo dice anche l’Ocse” (o il Fmi o la Bce) per troncare qualunque dibattito. Ma gli economisti possono sbagliare. E se l’unico fondamento di certe politiche è un’equazione, caduta quella il politico non ha più nulla da dire. Perché aveva delegato ad altri, a tecnici lontani dagli elettori, il compito di elaborare la politica economica. Il dibattito sul rigore e sulle politiche espansive continuerà (dura almeno dalla crisi del 1929). Ma il momento dei sostenitori dell’ortodossia del rigore sembra avviarsi alla fine.

Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2013

@StefanoFeltri
2013-04-20 07:59:16
l'ho sentito ieri su radio24..
che dire?
1- continuare a pretendere che l'economia sia una scienza esatta al pari di matematica o fisica è un errore grave di impostazione.
2- bisogna sempre ricordare che è molto difficile che gli economisti emergano per la loro vera capacità, quando ci sono grandi centri di potere che hanno interesse a promuovere i più "compiacenti" (non è un caso che la notizia esca oggi che l'amm. Obama ha "altre esigenze"..)
2013-04-20 08:11:25
lo scandalo è che quello studio sia stato verificato solo dopo 3 anni
possibile??
2013-04-20 08:15:47
lo scandalo è che si possa davvero credere ad una corrispondenza tra debito e crescita.
Una cosa che persino il più miope degil ignoranti capisce che non può esistere.

edit:
e poi su sk.italia quando pubblico un grafico io mi rispondono che metto in relazione dati a caso..
(edited)
2013-04-24 00:15:27
I tedeschi salvati da Dublino
Articolo di J. Bittner e D. Scall, tratto da Die Zeit. Traduzione di Internazionale

Sulle navi c’è un attrezzo chiamato ascia d’emergenza. Serve quando si apre una falla nello scafo. In queste situazioni si usa per fare a pezzi l’arredo dell’imbarcazione. Tavoli, armadi, cuccette: tutto viene sacrificato per tappare il foro. L’importante è che la nave resti a galla. Come dovrebbe aver dimostrato la crisi finanziaria, anche gli stati dispongono di un’ascia d’emergenza. La sua, l’Irlanda l’ha usata quattro anni e mezzo fa.

Il pomeriggio del 29 settembre 2008, nell’ufficio del primo ministro Brian Cowen a Dublino, ci fu un incontro tra il ministro delle finanze, quello della giustizia, il governatore della banca centrale, il portavoce del governo e altri cinque o sei consulenti. Come si è saputo in seguito, il gruppo era nel panico. Temeva che l’indomani, all’apertura delle banche e delle borse, l’intera economia dell’isola sarebbe crollata. Senza misure decisive, l’Irlanda si sarebbe trovata nella stessa situazione della Lehman Brothers, la banca statunitense da poco fallita. I cittadini stavano perdendo fiducia nelle banche, e il rischio era la corsa agli sportelli: milioni di risparmiatori pronti a chiedere la restituzione del loro denaro.

“Bisognava salvaguardare l’ordine pubblico”, racconta oggi un consulente che partecipò all’incontro. Fu allora che i funzionari del governo irlandese decisero di chiedere aiuto a un gruppo di esperti esterni.

Alle 18.37 un importante esponente del ministero delle finanze spedì alla banca statunitense Merrill Lynch un’email scritta in fretta e furia. Pochi giorni prima il governo aveva ingaggiato una squadra di esperti di investimenti della banca d’afari come consulenti. “Sono in riunione con il primo ministro”, era scritto nell’email, “mi occorre al più presto una sintesi dei pro e dei contro di una garanzia”. Quella di cui parlava il funzionario era una garanzia statale: l’impegno che il governo sarebbe intervenuto per evitare perdite alle banche. Era questa l’ascia d’emergenza. E si sarebbe abbattuta sul patrimonio nazionale.

Ma chi è stato a trarre davvero vantaggio dal sacrificio dei beni pubblici irlandesi? Stando alla versione più semplicistica del salvataggio dell’euro, sono sempre i contribuenti tedeschi a correre in aiuto dei paesi in dfficoltà. Ma l’Irlanda non era la Grecia, e nemmeno Cipro. I suoi problemi non derivavano da una cattiva gestione economica o da politiche finanziarie sbagliate.

Nel suo caso è difficile dire chi abbia soccorso chi. E la questione della responsabilità del crac irlandese e dell’andamento dei suoi lussi finanziari è ancora aperta.

Oggi il viceministro delle finanze irlandese, Brian Hayes, sostiene che la decisione presa dal gruppo di crisi nel settembre del 2008 fu un “errore tremendo”. Ma chi poteva immaginarlo all’epoca? Il crollo della Lehman aveva gettato nel panico investitori e risparmiatori in tutto il mondo.

Grazie a una tassazione molto bassa, l’Irlanda aveva attirato una grande quantità di investimenti. “Tutti volevano fare affari sull’isola”, spiega un ex membro del consiglio d’amministrazione della Deutsche Bank. “E dopo l’ingresso nell’eurozona, la posizione del paese era in costante miglioramento”. Dublino sembrava il migliore dei mondi possibili per la finanza: riuniva i vantaggi delle leggi europee, statunitensi e asiatiche. L’Irlanda era diventata la “tigre celtica”. E i banchieri, anche e soprattutto quelli tedeschi, hanno deciso di darle corda. Senza dubbio, però, i primi responsabili della crisi del debito sono stati gli irlandesi stessi. In troppi si sono lasciati abbagliare da uno sviluppo economico che credevano inarrestabile e hanno preso in prestito troppi soldi per pagare case, automobili e vacanze. Ma a stampare il denaro non erano le banche del paese: i miliardi che queste distribuivano tanto generosamente provenivano da istituti di credito esteri, che a loro volta guadagnavano proprio grazie al mal riposto ottimismo degli irlandesi.

Lo stesso copione

Alle 18.43, sei minuti dopo la richiesta del gruppo di crisi, arrivò la risposta della Merrill Lynch. “In questo momento”, era scritto nell’email, “è importante tutelare gli interessi dei clienti delle banche per prevenire un’ondata di panico”. La misura più efficace, proseguiva il messaggio, era una garanzia statale sui depositi. Ma per recuperare credibilità non bisognava limitarsi a proteggere i conti irlandesi: si sarebbero dovuti includere nella manovra tutti i creditori e i detentori di titoli delle banche, anche quelli stranieri. In questo modo l’impatto sui mercati sarebbe stato “decisivo”.

A tarda notte i ministri si accordarono su questa proposta, anche per evitare che altre banche europee fossero trascinate nel vortice. Il mattino dopo il primo ministro Cowen annunciò che i risparmi, i titoli di credito e le obbligazioni di ogni tipo depositati presso le banche irlandesi sarebbero stati garantiti dallo stato. La somma garantita ammontava a quasi quattrocento miliardi di euro, 142 dei quali dovevano servire a coprire i depositi degli investitori stranieri. Il debito pubblico irlandese si impennò dal giorno alla notte. Siglato l’accordo, i collaboratori di Cowen gli fornirono un elenco di risposte già pronte da dare a giornalisti e opinione pubblica. “Il governo agisce in primo luogo e soprattutto nell’interesse dell’economia e dei contribuenti irlandesi”, doveva rispondere il primo ministro a chi avesse chiesto se la misura approvata non serviva soprattutto ad aiutare i dirigenti di banca.

Il governo irlandese si è attenuto a questo copione per molto tempo, nonostante la decisione presa il 29 settembre 2008 abbia fatto precipitare il paese nel peggior indebitamento della sua storia. Alla ine Dublino ha speso 64 miliardi di euro per salvare il suo settore bancario. Le tasse sono aumentate e sono stati tagliati gli stipendi. Secondo i calcoli di un gruppo di attivisti impegnati in una campagna per la “giustizia iscale”, fino al 2030 il 30 per cento del pil irlandese sarà usato per ammortizzare il salvataggio delle banche. Gli irlandesi si faranno carico ancora per molti anni delle perdite degli istituti di credito e dei loro azionisti: perdite che dovrebbero essere sostenute da chi usa il proprio denaro per speculare.

“È vero, gli oneri non sono distribuiti equamente”, afferma Lucinda Creighton, ministra degli affari europei del nuovo governo irlandese. Ed è vero anche che le banche tedesche hanno tratto vantaggio dalle misure di risparmio attuate in Irlanda? “Non mi sento di contraddire un’afermazione del genere”, è la risposta.

La garanzia statale sui depositi è scaduta il 28 marzo. La nave è stabilizzata e la fiducia negli istituti di credito irlandesi è stata ripristinata. Per Dublino è il momento di fare domande. Mentre in Germania ci si prepara a votare per le elezioni parlamentari, in programma a settembre, sull’isola ormai si dice che non sono stati i tedeschi a soccorrere gli irlandesi, ma l’Irlanda a salvare le banche tedesche. Stephen Donnelly, un deputato indipendente della contea di Wicklow, calcola che buona parte dei depositi a rischio conservati negli istituti di credito irlandesi provenisse da banche tedesche. Per questo ha chiesto al ministro delle finanze della Germania un elenco delle partecipazioni bancarie tedesche in Irlanda. La lista permetterebbe di capire quali istituti sono stati avvantaggiati dalla garanzia statale. Il ministero delle finanze tedesco ha fatto sapere di non disporre di “cifre dettagliate a riguardo”. Wolfgang Schäuble ha detto solo che “dobbiamo fare di tutto affinché la fiducia appena ripristinata non vada persa. Pertanto è particolarmente importante che il programma sia posto in atto in maniera eicace, come concordato”.

Ma perché per l’Irlanda non dovrebbero valere le stesse condizioni applicate a Cipro, dove gli investitori sono stati costretti ad accollarsi una parte delle perdite? Schäuble risponde: “Procediamo a piccoli passi. Ogni stato membro è in condizioni diverse. È stato il governo irlandese a decidere di dare alle sue banche le garanzie più ampie possibili. E lo ha fatto sotto la sua piena responsabilità”. In altre parole, la colpa è sua.

“Le opinioni di Schäuble sono singolari”, commenta Donnelly. “In sostanza afferma che l’Irlanda deve farsi carico delle perdite delle banche tedesche”.

La questione va oltre il problema del debito pubblico irlandese. Se è vero che le banche tedesche hanno condiviso i rischi del mercato irlandese, il salvataggio messo a punto da Dublino è comunque iniquo anche dal punto di vista politico. L’imprudenza mostrata dagli istituti di credito tedeschi sul mercato mondiale è stata infatti motivata da una precisa volontà politica, condivisa anche dell’ex ministro delle inanze tedesco Peer Steinbrück. Se il sistema bancario europeo ha quasi rischiato il collasso, è a causa di un’ideologia diffusa e sposata anche dalla grande coalizione che ha governato a Berlino fino al 2009. Secondo questa teoria, la globalizzazione offre opportunità fenomenali, basta lasciare le banche libere di approfittarne.

Garanzie implicite

Nel settembre del 2006 Jörg Asmussen, allora sottosegretario al ministero delle finanze tedesco, ha pubblicato un articolo sulla rivista di economia Zeitschrift für das gesamte Kreditwesen. Nel testo espone il giudizio del ministero sulle cosiddette asset backed securities (abs), titoli simili a obbligazioni il cui rimborso è garantito da uno o più crediti. Grazie agli abs, per esempio, le banche tedesche possono acquisire i diritti sui crediti che un istituto estero vanta nei confronti di imprese edili private. Questo tipo di attività può rivelarsi proficuo, ma è anche molto rischioso, visto che i banchieri di un paese non conoscono necessariamente le imprese straniere. Qualche anno fa, tuttavia, questi prodotti finanziari innovativi andavano molto di moda. E il governo tedesco non si è fatto sfuggire l’occasione di invitare a usarli. In Germania, scrive Asmussen nel suo articolo, il mercato delle abs deve svilupparsi “sempre di più” .

Henrik Enderlein, un economista che insegna ad Harvard, ritiene che in quel periodo il governo tedesco abbia esposto le grandi banche private a un grave rischio. “Le misure per stimolare il settore bancario erano organizzate in modo da permettere agli istituti di prendere rischi enormi”, spiega. Fino agli anni duemila il sistema bancario tedesco era tra i meno redditizi del mondo industrializzato. Ma poi i politici e i banchieri hanno deciso di cambiare le cose. Enderlein ritiene inoltre che i grandi istituti come la Deutsche Bank conidassero sul fatto di essere troppo grandi per fallire. “Per i banchieri è stato sempre chiaro che il governo non avrebbe mai fatto andare in bancarotta le principali banche private tedesche. Esisteva una garanzia implicita”. In sostanza, spiega Enderlein, era “come se qualcuno avesse offerto crediti a un giocatore d’azzardo per poi mandarlo dritto in un casinò”. In Irlanda, per esempio.


Le statistiche della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) dimostrano che tra l’inizio degli anni duemila e il marzo 2008 gli investimenti delle banche tedesche negli stati periferici dell’Europa hanno registrato un rapido aumento, raggiungendo circa novecento miliardi di euro. Secondo i dati della banca centrale tedesca, in Irlanda questo incremento è stato particolarmente veloce. Alla fine del 2003 gli istituti di credito tedeschi avevano 39 miliardi di euro investiti nell’isola. A settembre 2008 la cifra ammontava a 135 miliardi. Nel 2010 il blogger britannico Paul Staines ha pubblicato un elenco degli istituti che a quella data detenevano titoli di credito delle banche irlandesi.
Quasi tutti avevano sede in Germania, Francia e Regno Unito.
Ma una conferma ufficiale a riguardo è impossibile da ottenere sia dalla banca centrale irlandese sia dall’autorità di vigilanza bancaria tedesca. Il motivo è il “segreto d’affari”. La Deutsche Bank risponde solo che quasi tutti i suoi depositi irlandesi avevano “garanzie consistenti”. Ma in che cosa consistessero queste garanzie non è dato sapere. È strano: in Europa è possibile risalire al produttore di qualunque bistecca e di ogni singolo germoglio di soia. Ma si possono fare investimenti miliardari senza nessun attestato d’origine e senza certificazioni di qualità.

Decidiamo allora di parlare con Asmussen, in teoria la persona più informata sui lussi di euro. La carriera di questo funzionario del ministero delle finanze si è sviluppata con la stessa rapidità delle rendite bancarie degli ultimi dieci anni. Nel 2003, quando la Germania era governata da un’alleanza rosso-verde, Asmussen è stato messo a capo del dipartimento di politica finanziaria internazionale del ministero delle finanze. Nel 2006, quando era al governo la grande coalizione, è stato lui a stilare l’invito alle banche a inserirsi più attivamente nel mercato delle cartolarizzazioni. Anche i dettagli dell’operazione, contenuti in un accordo sottoscritto da cristianodemocratici e socialdemocratici, sono stati concepiti sotto la sua guida. “Le innovazioni dei prodotti e le nuove modalità di distribuzione dovranno avere un forte sostegno”, si legge nel patto siglato da Cdu e Spd. Secondo il documento, l’autorità di vigilanza sui mercati finanziari avrebbe dovuto applicare “i parametri di controllo in modo più ragionevole” e verificare che tutte le normative in vigore fossero davvero necessarie.


Quando poi, nel 2009, è nato il governo di coalizione tra Cdu e liberali, Wolfgang Schäuble ha riconfermato Asmussen alla carica di sottosegretario al ministero delle finanze. Il 1 gennaio 2012 questo funzionario di appena 46 anni è stato nuovamente promosso, questa volta al ruolo di membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea (Bce). Asmussen ha riiutato di concedere dichiarazioni alla Zeit e all’Irish Times. La sua portavoce ha comunicato che non voleva parlare delle sue attività passate. Considerato il ruolo chiave rivestito negli anni della crisi, la sua è una reazione troppo facile. Alla fine siamo comunque riusciti a incontrarlo durante una conferenza a Berlino. Cosa consiglierebbe lo Jörg Asmussen del 2013 a quello del 2003? “Con il senno di poi, non ripeteremmo certi errori che abbiamo commesso all’epoca. Questo vale per i politici, per i funzionari pubblici, per gli economisti e per i giornalisti. Abbiamo tutti imparato una lezione da questa crisi”.

L’implosione bancaria del 2008 è costata molto anche alla Germania. Nel 2009 il governo tedesco ha dovuto, tra le altre cose, nazionalizzare la Hypo Real Estate Holding, con un’operazione che finora è costata circa 35 miliardi di euro. La Depfa, un’ailiata della Hypo Real Estate, aveva sfruttato l’ineicienza dell’autorità di vigilanza bancaria irlandese per guadagnare miliardi scommettendo in tutto il mondo sui tassi d’interesse. Poi il lusso di denaro si è interrotto con il crac della Lehman Brothers. Tuttavia, nessuno ha cercato di convincere il governo di Berlino ad attingere al patrimonio pubblico della Germania per il bene del sistema bancario europeo.

Dal canto suo, le pressioni sull’esecutivo irlandese non sono mancate. Nel 2009 la Bce ha insistito perché Dublino prolungasse la garanzia sulle banche oltre il 2010. “Questo è un paese piccolo”, ricorda un esponente del governo irlandese, “abbiamo dovuto cedere”. “È vero, l’autorità di vigilanza bancaria irlandese aveva i suoi difetti”, ammette oggi il ministro del lavoro irlandese, Richard Bruton. “Ma in una transazione ci sono due attori. Chi ha sostenuto l’espansione delle banche irlandesi lo ha fatto consapevolmente. La nostra opinione è che l’Irlanda abbia fatto un sacrificio per l’Europa. Per questo vorremmo si tornasse a parlare del piano di salvataggio negoziato
con l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale nel 2010”. Peer Steinbrück, però, non ne ha nessuna voglia. L’ex ministro delle finanze tedesco e attuale candidato cancelliere della Spd preferisce non esprimersi sul suo ruolo nella crisi e sulle critiche irlandesi.

A Francoforte i grattacieli della Deutsche Bank distano solo pochi passi dalla sede centrale della Bce. In un edificio vicino incontriamo Michael Endres, un ex dirigente della banca tedesca. Al pensiero di come è cambiato il settore negli ultimi vent’anni, scuote la testa. Endres ha fatto parte del consiglio d’amministrazione della banca più grande della Germania fino al 1998 e in seguito si è occupato della nazionalizzazione della Hypo Real Estate. “Il problema principale degli ultimi anni”, afferma, “è stato che le banche hanno perso di vista il senso della loro attività, che consiste nel fornire liquidi e crediti all’economia reale. Per questo i bilanci degli istituti si sono ingigantiti fino a scoppiare”.

La scommessa delle banche

Certo, durante il boom anche gli irlandesi hanno perso il senso della misura. Dublino è piena di storie di infermiere, autisti di autobus e giovani professori che in quel periodo hanno comprato casa a prezzi esorbitanti. Da allora il valore di mercato di quegli immobili è precipitato, come il reddito dei loro proprietari. Che oggi si chiedono come faranno a estinguere la loro ipoteca e se potranno ancora andare in vacanza. È giusto che gli investitori tedeschi che hanno portato il loro denaro sull’isola l’abbiano fatta franca insieme alle loro rendite? Come sono stati investiti in realtà i capitali provenienti dalle assicurazioni pensionistiche tedesche? E chi paga le spese del loro salvataggio? Gli 1,8 milioni di lavoratori irlandesi – protesta Paul Sweeney, un esperto di economia politica che lavora per la confederazione dei sindacati irlandesi – non hanno ricevuto niente in cambio della stabilizzazione del settore finanziario europeo: “Nemmeno una scuola, un insegnante o un letto di ospedale. La Bce e l’Unione europea saranno soddisfatte di questa soluzione, ma quest’accordo rischia di compromettere il rispetto per la democrazia”.

In Spagna sempre più persone stanno arrivando alle stesse conclusioni. Un paio di giorni fa un politico dell’Ue e un giurista di Madrid esperto di diritto europeo hanno stilato insieme un documento di protesta. “Le dichiarazioni superficiali e fuorvianti” della cancelliera tedesca sulla crisi sono errate, e la Germania sbaglia a considerarsi una vittima. A chi è utile, infatti, il salvataggio finanziario della Spagna? Soprattutto alle banche tedesche. Oggi, però, l’Europa sta cominciando a rivedere i propri conti. E Berlino non sembra interessarsene troppo. Manovre del genere sono scomode sia per Angela Merkel sia per gli altri candidati alla guida del prossimo governo tedesco.

tgcoma.it
2013-04-24 08:08:05
si comincia ad intravedere da più parti la presa di coscienza del meccanismo:
indebitamento privato->casus crisi>bailout banche private->costi crisi banche private messe in carico al settore pubblico->crescita esponenziale del debito pubblico->richiesta UE di politiche di austherity..
Che è a solo vantaggio dei grandi capitalisti del nord europa.
Il punto è che si deve impedire l'importazione di capitali senza rischio di cambio, che vanno in cerca di alti rendimenti.. altrimenti un paese (vedi spagna cipro eire portogallo, ma anche in parte italia) si trova un indebitamento privato ingestible che eì destinato alla prima crisi dei mercati di liquidità ad esplodere e a diventare un problema di finanza pubblica!
2013-04-24 08:30:32
Il punto è che si deve impedire l'importazione di capitali senza rischio di cambio, che vanno in cerca di alti rendimenti

L'assenza del rischio di cambio non é di per se negativa anzi é un vantaggio per l'economia reale europea.
Neanche la libera circolazione dei capitali é uno svantaggio per l'economia reale. Noi abbiamo bisogno degli investimenti tedeschi come dell'aria.
Ad essere penalizzante - anzi ad essere profondamente ingiusta - é solo la differenza nei rendimenti.
Disinnescando quella si disinnescano tutti i flussi speculativi.

Se c'é una sola moneta europea il fabbisogno di debito pubblico e il tasso d'interesse che quel debito paga devono essere due variabili europee.

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2013-04-24 08:46:21
L'assenza del rischio di cambio non é di per se negativa anzi é un vantaggio per l'economia reale europea.

vedi che non capisci..
se in Germania una banca riesce a lucrare il 2% ma in spagna le danno il 5% ovviamente investirà in spagna.
Ma in Spagna si troveranno un mare di miliardi tedeschi che alimenterà:
inflazione, bolla immobiliare, consumi senza reddito
Insomma tutte le cause della crisi..

poi a banche spagnole esplose, lo stato spagnolo dovrà pagare per tutti (e quindi fare politiche di austerity in recessione)

E' proprio un errore permettere un indebitamento PRIVATO estero senza rischio di cambio.

Neanche la libera circolazione dei capitali é uno svantaggio per l'economia reale. Noi abbiamo bisogno degli investimenti tedeschi come dell'aria.

LOL, se c'è una cosa di cui l'Italia non ha bisogno è di capitali esteri.

Ad essere penalizzante - anzi ad essere profondamente ingiusta - é solo la differenza nei rendimenti.
Disinnescando quella si disinnescano tutti i flussi speculativi.


STRALOL. Quello però non lo puoi mica vietare con una legge..

Se c'é una sola moneta europea il fabbisogno di debito pubblico e il tasso d'interesse che quel debito paga devono essere due variabili europee

cosa centra il debito pubblico??? ed il tasso di interesse della BCE che legame ha con quello che i privati contrattano tra di loro???
lo vedi che continui a confondere cause con effetti???
Lo vedi che continui ad additare il pubblico mentre invece è il privato?